Fonte: il manifesto | Autore: Jacopo Rosatelli
A poco più di sei mesi dalle elezioni, nella sinistra italiana si
confrontano tre differenti strategie, che emergono chiaramente malgrado i continui
diversivi e le chiacchiere tardo-estive. La prima è quella di chi lavora al
modello-Syriza: distinzione netta dalla socialdemocrazia compromessa con le
politiche di austerità, e scommessa sulla pasokizzazione (si perdoni
l’improbabile neologismo) del Partito democratico, ossia sulla sua riduzione a
forza minoritaria – come il Pasok greco, appunto. La seconda è quella di chi
vuole un’alleanza progressista di governo che ricalchi l’esempio della
coalizione socialisti-verdi alla guida oggi della Francia e, potenzialmente,
dall’autunno del 2013 anche della Germania. La terza consiste nell’intesa
«progressisti-moderati», nel nome di «comuni valori europeisti», difesa senza
eccezione alcuna dall’intero gruppo dirigente del Pd (neolaburisti Fassina e
Orfini inclusi).
Esistono molti modi per saggiare la tenuta e il valore di una strategia
politica. Uno di questi può essere provare a verificare se le tendenze di cui
si parla nei documenti dei partiti possano essere colte (magari anche solo
debolmente) nella società. La politica non è certo una scienza esatta, perché
il suo oggetto è una realtà – insegna Aristotele – «che non è necessariamente,
ma per lo più». E tuttavia, è possibile parlare di «evidenze» che possono
giustificare la validità delle prime due strategie: innanzitutto i referendum
di giugno dello scorso anno, ma anche i risultati delle ultime due tornate
amministrative. Alcuni dei quali, (Napoli e Palermo) possono essere portati a
sostegno del modello-Syriza, mentre altri (Milano, Cagliari, Genova) a supporto
di quello «franco-tedesco» (lo si chiami così per comodità). Nessuna evidenza,
invece, sembra suffragare la strategia cara al Pd.
Si può anche tentare, in secondo luogo, di capire se alle parole corrispondano
delle cose: se alle formule del linguaggio, cioè, corrispondano delle forze
realmente esistenti. Ebbene, penso che si possa affermare che i «moderati» che
stanno a cuore al gruppo dirigente democratico non esistono. Intendo dire che
l’etichetta «moderato» senza ulteriori specificazioni non è attribuibile a
nessun ente realmente esistente sullo scacchiere politico, essendo tale
etichetta un attributo e non un sostantivo. Ci soccorre il giustamente
fortunato libretto di Norberto Bobbio “Destra e sinistra”, nel quale si
argomenta con cristallina chiarezza che la diade estremismo-moderatismo va
ricondotta alle articolazioni interne dei diversi schieramenti, quello
progressista (la sinistra) e quello conservatore (la destra). Nell’Italia
contemporanea esistono sia una destra estremista (Berlusconi e la Lega) che una
destra moderata (l’Udc, Monti e Montezemolo). Che si distinguono fra di loro
non per i fini (le politiche neoliberiste), ma per i mezzi: tendenzialmente
antidemocratici quelli impiegati dai primi, rispettosi delle regole
costituzionali e dello spirito repubblicano quelli dei secondi.
Si potrebbe obiettare che la classificazione «moderato» sta, in realtà, ad
indicare forze politiche democristiane e liberali. Ammesso – ma non concesso –
che sia così, il discorso cambia poco: non si vuol certo dire che sia sempre e
comunque impossibile che esistano coerenti e organiche alleanze fra la sinistra
(d’estrazione operaia ed ecologista) e forze democristiane o liberali. Esistono
significativi esempi storici: il governo del socialdemocratico Willy Brandt
nella Germania federale dei primi anni settanta. Dopo il lungo e cupo
dopoguerra all’insegna dell’egemonia del partito di Konrad Adenauer,
socialdemocratici e liberali si incontrarono in un progetto politico volto a
generare più spazi di democrazia e autodeterminazione delle persone («mehr
Demokratie wagen», «osare più democrazia» fu lo slogan di Brandt), contro il
paternalismo quasi-autoritario dei conservatori. Quell’esperienza rappresentò
la riconciliazione della Germania con i valori della modernità, non ancora del
tutto recuperati dopo la sconfitta del nazismo. Non mancarono problemi e
contraddizioni (come la legislazione d’emergenza sul terrorismo), ma l’accordo
fra socialdemocratici e liberali significò senza dubbio una vita migliore, più
libera, per la maggioranza dei cittadini tedeschi.
Chiediamoci: i «liberali» italiani del nostro tempo sono in grado di offrire
alle forze progressiste una sponda per un progetto che abbia, mutatis mutandis,
caratteri analoghi a quelli del governo di Willy Brandt? Per un disegno di
trasformazione del nostro Paese che punti a renderlo più laico e maturo, in cui
ad arretrare non sia lo stato sociale ma lo stato paternalista: quello che
norma i comportamenti che dovrebbero essere liberi, che impone modelli di famiglia
ormai superati dal tempo, che punisce azioni che non danneggiano terzi (come
farsi uno spinello), che restringe la libertà di movimento ai migranti, che
impedisce di fatto il pluralismo culturale attraverso una più che discutibile
gestione delle (scarse) risorse per produrre arte e conoscenza. No, i nostri
«liberali» hanno a cuore esclusivamente la «libertà economica» dai proverbiali
lacci e laccioli. Del tutto legittimo, ma certo in contrasto con il proposito
di formare un progetto di governo con la sinistra coerente e credibile.
E i democristiani? In linea teorica, di nuovo, sarebbe perfettamente
concepibile un’alleanza «rosso-bianca» fondata, questa volta, non tanto sul
valore della libertà ma su quello della solidarietà. Forse gli omosessuali
desiderosi di sposarsi come avviene nei paesi civili non porterebbero a casa
granché, ma in un simile scenario è ragionevole pensare che il governo
lavorerebbe a sradicare la povertà, a promuovere legami sociali al di fuori dai
circuiti del mercato, a ridare dignità al mondo del lavoro, in una sorta di
Kulturkampf contro gli spiriti animali del capitalismo e dell’individualismo
possessivo. Niente a che vedere, insomma, con la cosiddetta «agenda Monti» di
cui parlano i leader politici dell’attuale maggioranza. Ebbene, poniamoci anche
qui la domanda se il partito democristiano realmente esistente, quello dello
scaltro Pierferdinando Casini, potenziale alleato del Pd, offra questa
possibilità. La risposta, ci sembra, è fin troppo semplice.